Nasceva a Seregno il 30 ottobre 1890, ultima di 16 figli. Riuscì un po’ gracile quanto a costituzione fisica, molto docile nel carattere, con una intelligenza vivace e uno spirito arguto. Frequentò le scuole, da quella materna al Collegio, presso le Benedettine del SS. Sacramento che proprio a Seregno avevano iniziato a vivere la vita monastica nel 1880 sotto la protezione del Patriarca Ballerini. Virginia aveva un fratello sacerdote e una sorella (Madre Marcellina) religiosa tra le Sacramentine di Monza. Sentendosi lei pure chiamata a consacrarsi a Dio avrebbe voluto seguire le orme della sorella, ma per la salute cagionevole le fu sconsigliato.
Le Sacramentine vivevano la clausura papale, mentre le Benedettine presso le quali aveva seguito i suoi studi, erano
ritenute un ordine meno rigoroso. Su consiglio di Mons. Luigi Talamoni, confessore della comunità, si orientò verso tale forma di vita monastica. La decisione non fu immediata e probabilmente conobbe anche momenti di sofferto travaglio. Forse perché nel frattempo le Benedettine del SS. Sacramento avevano lasciato Seregno e quindi l’attività scolastica, per trasferirsi a Ronco di Ghiffa? Chissà, comunque ci è pervenuta una lettera che M. Caterina Lavizzari, allora Priora della comunità, scrisse a Virginia per illuminarla nella sua scelta e per rassicurarla.
Se la superiora delle Benedettine di Ronco dovesse oggi scrivere alla signorina aspirante Virginia Molteni fu Antonio, non so cosa potrebbe scrivere: scrive invece l’indegna rappresentante della celeste Abbadessa, la Madonna; e scrive a una cattiva, ma amata figliolina della Vergine, che il demonio vorrebbe strappare dalle braccia di Maria per farne un brutto gioco di sua malizia fine e nascosta.
Dunque ascolta cosa mi ha detto la Madonna: io attingo la penna nel suo Cuore materno: “Non voler cadere vittima volontaria del terribile nemico delle vocazioni religiose. Trema al pensiero che un filo di orgoglio, un’ombra di natura possano fornire arma al demonio per rovinarti. In questi giorni il gemito più frequente del tuo cuore sia: Deus in adjutorium meum intende.” Sursum corda! Io ti assisterò, ti porterò e ti aiuterò oggi, sempre: confida in me e ti formerò una santa religiosa, una semplice e piccola vittima dell’ostia divina. Ti benedico. (Lettera da epistolario di madre Caterina Lavizzari - ARCHIVIO Benedettine Adorazione Perpetua del SS. Sacramento, Ronco Ghiffa.)
Così, il 24 maggio 1914 fu accolta come postulante a Ronco di Ghiffa. Nel tempo della formazione dovette imparare a conciliare il desiderio di partecipare pienamente e perfettamente ad ogni osservanza della vita monastica con la gracilità della sua salute, per la quale veniva a volte fatta oggetto di particolari attenzioni. Aveva un gamba debole che la faceva un po’ zoppicare e per questo le fu data l’obbedienza di rimanere seduta in chiesa durante l’ufficiatura. Non le fu facile accettare il trattamento di riguardo. Nel complesso comunque il suo noviziato fu un tempo di grazia e, come era allora in uso, trascorse molto veloce. Le tappe si susseguirono a scadenza ravvicinata, perché, come previsto nella regola di S. Benedetto, non esisteva la professione temporanea.
L’11 ottobre 1914 fece la sua vestizione prendendo il nome di Sr. M. Tarcisia dell’Eucaristia. E in capo a venti mesi dall’entrata in monastero, il 16 dicembre 1915 era già professa di voti perpetui.
Da quanto si desume dai ricordi di chi la conobbe, si distinse sempre per raccoglimento, pietà, amore alle sue ore di adorazione e all’Opus Dei. Nelle ricreazioni aveva la capacità di portare serenità e buon umore con trovate sorprendenti, con le sue poesie o con sonetti, talvolta composti in dialetto. Venne messa a frutto anche la sua propensione per la musica. Si esercitò nel suono del pianoforte e dell’armonium, naturalmente sfruttando i ritagli di tempo, come si usava al monastero di Ronco e come si usa ancora in molti dei nostri monasteri.
Nel 1922 fu scelta e inviata, con altre consorelle, per l’aggregazione del monastero di S. Benedetto in Piedimone d’Alife. Al momento della partenza, durante il rito della consegna del crocifisso, del breviario e della Regola, Madre Caterina Lavizzari esortò le partenti con un discorso che può essere considerato un programma: Andate a lavorare per l’estensione del Regno Eucaristico, fatelo nell’umile ubbidienza con la quale voi andavate qui, in virtù dell’obbedienza stessa, a pregare, a lavorare o a scopare.
L’umiltà e l’obbedienza siano le vostre due ali. Quest’ultima potrà anche diventarvi un esercizio molto laborioso, ma siate convinte che finché voi sarete fedeli in modo assoluto, tutto andrà bene. Non fate alcun piano, non intraprendete niente senza la sanzione dell’obbedienza della casa di Ronco che vi manda e vi sosterrà”. ( MONTREZZA SR. PAOLA OSBAP, La serva di Dio M. Caterina di Gesù Bambino, Borla Torino 1965, pag. 188.)
A quest’ultimo punto Madre Tarcisia è stata fedelissima. Sono pervenute fino a noi moltissime lettere da lei scritte alla Madre Priora di Ronco durante gli anni della permanenza a Piedimonte. Alcune composte di 8 o 12 pagine, spesso scritte a sera tarda o a notte inoltrata. In esse dava relazione e chiedeva il parere proprio su tutto: sulla gestione della parte economica (fino all’ultima lira), sulle condizioni fisiche delle sorelle, sull’aspetto spirituale.
Dipingeva a parole veri e propri quadretti di vita quotidiana utilizzando colorite espressioni ora prese a prestito dalla parlata meridionale, altre volte dal dialetto lombardo. Il tutto legato da una profonda venerazione per la sua interlocutrice: Madre Caterina Lavizzari, dalla quale si sentiva accompagnata e guidata per mano. In ogni lettera si introduceva o concludeva con l’immancabile espressione: “Nostra Madre mi benedica” oppure: “Mi tenga sempre benedetta”.
Questo legame molto stretto, nonostante la distanza geografica, lascia trasparire il rapporto di intesa profonda che si era stabilito con la sua Madre priora fin dal tempo del noviziato.
Una spigolatura dalle sue lettere: Le siamo tutte riconoscenti di tanta materna bontà e del bene che sempre ci vuole, benché passate nel numero delle vecchie. Basta che ci tenga sempre sotto l’ombra delle sue sante ali, allora ci sentiremo sicure come un tempo, quando cessavo di piangere solo se mi metteva sotto il suo scapolare….
Dalla corrispondenza di M. Tarcisia risulta esplicata anche l’altra parte del discorso di Madre Caterina alle partenti: ricordatevi che c’è tra di noi una comunicazione efficacissima di grazia; uno scambio: le preghiere e i sacrifici delle une saranno la forza delle altre… quelle che partono, restano, poiché restano membra e figlie della comunità, da cui esse non hanno mai pensato né desiderato di separarsi; per contro quelle che restano, partono e vi accompagnano con le loro preghiere .
Molti dei “letteroni” di Madre Tarcisia erano infatti fioriti di aneddoti ed episodi umoristici e destinati proprio a rallegrare le ricreazioni delle consorelle rimaste a Ronco, come nel tempo in cui si trovava tra loro. La partenza del 1922 fu comunque solo il primo passo per preparare e squadrare quella pietra preziosa che avrebbe dovuto segnare la rinascita del nostro monastero.
Le monache partenti, con a capo Madre Lucia Silva, arrivarono al monastero dedicato a S. Benedetto che si trovava in Piedimonte, rione Vallata, quando ormai l’ora era tarda. Avendo perso la coincidenza dei mezzi di trasporto a Caianello, si dovettero accontentare di un carretto trainato da cavallo e così fecero la loro entrata tra lo stupore, ma anche tra la gioia della gente accorsa. La povertà dei mezzi era grande e anche la regolarità monastica era un sogno, perché le monache che erano rimaste in quell’antico cenobio, ridotte in poche, erano riuscite a malapena a “sopravvivere” nella bufera delle soppressioni. Le nuove arrivate si misero di buon animo nella loro missione e dopo una visita di Madre Caterina, nel novembre dello stesso anno, iniziarono lentamente ad impostare la vita monastica con più regolarità. Il monastero divenne un punto di riferimento per la gente e si cominciarono ad accogliere aspiranti alla vita monastica e, più tardi, si aprì anche una scuola di lavoro per ragazze.
Madre Tarcisia era un valido aiuto per Madre Lucia: sosteneva l’ufficiatura corale, teneva la contabilità, teneva i rapporti con quanti si presentavano in parlatorio. Visto che l’innesto del nuovo germoglio dell’adorazione perpetua stava funzionando per il meglio, il Vescovo del luogo, Mons. Del Sordo, cominciò a guardare all’altro monastero presente nella stessa borgata di Piedimonte, ma in altro rione: il monastero dedicato al Santissimo Salvatore, più antico del monastero di S. Benedetto, anch’esso un tempo fiorente, ma chiuso al tempo delle soppressioni e ormai in mano al municipio locale.
Il Vescovo sognava di riaprirlo. Ai primi di aprile del 1926, in una sua visita ai monasteri dell’Italia meridionale, Madre Caterina aveva preso visione di quest’altro monastero. Così il sogno di Sua Eccellenza poteva cominciare ad avverarsi. Per l’autunno del 1926 si programmò la riapertura. Madre Tarcisia fu designata come responsabile e superiora della nuova comunità che si sarebbe formata. Ci fu bisogno di tutta la sua fede e della sua grande docilità per iniziare e per andare avanti. Le difficoltà furono di doppia natura. Innanzitutto, pur dovendo essere questa una vera e propria fondazione – perché la vita monastica ricominciava da capo – non vi fu inviato un gruppo di monache appositamente designate a quello scopo, ma si cominciarono a prenderne alcune dal monastero di S. Benedetto. E non sempre la destinazione era accettata volentieri: Sr. A. ha fatto digiuno per la notizia che dovrà andare a S. Salvatore. Lei che è la direttrice della chiesa di Gian Battista e Michelino! Sentirà il distacco poveretta, ma è inutile, per le opere del Signore ci vuole il sacrificio, i distacchi, non è vero Nostra Madre?
Inizialmente la stessa gestione finanziaria era comune ai due monasteri e anche M. Tarcisia, nelle solennità principali, tornava a S. Benedetto per suonare in coro o per compilare il libro dei conti o per attendere ad altre incombenze che aveva in quel monastero.
In secondo luogo, essendo stato riaperto S. Salvatore solo a condizione che vi si tenesse l’asilo, era quella una clausola capitale, che richiedeva tanto impegno e assorbiva la maggior parte del tempo e delle energie della minuscola comunità: Al Signore piace proprio giocare. Chi l’avrebbe detto che dovevamo capitare in un asilo!! Forse per insegnarci lo spirito di infanzia. Sia sempre il suo nome benedetto.
L’insegnamento doveva essere a norma degli accordi presi con il Comune e l’Asilo giuridicamente ben regolato. C’è sempre gente, o autorità, ora visitatori, benefattori, il giudice, il commissario, ecc. e bisogna sempre ballare… anca a ves zop (allusione alla sua infermità).
Madre Tarcisia, nelle sue lettere, ne racconta parecchie di queste visite. Si potrebbero sceneggiare, per la ricchezza di particolari con cui le descrive e l’arguzia con la quale riusciva a cavarsela in ogni situazione: Venne il Commissario, (settentrionale) mi salutò alla fascista, che ridere, io risposi con l’inchino e mi fecero osservare che dovevo pure rispondere alla fascista, alzando la mano. Che so io? – dissi – lo saprà bene il Commissario che S. Benedetto dice di tenere le mani sotto lo scapolare! Tanto più che se non alzavo la mano all’altezza giusta, ma solo a metà, restava il saluto alla massonica! Per carità, mancava anche questa!
Mise tutte le sue energie a servizio di quest’opera. Finalmente, a goccia a goccia, il gruppetto sparuto di monache e oblate, quasi un’équipe di servizio bastante solo per l’asilo e la scuola, divenne “il piccolo gregge”: una comunità che, pur con fatica, riusciva ad articolare preghiera e lavoro e poteva cominciare a guardare al futuro avendo ottenuto nel 1933 l’autorizzazione ad avere un noviziato proprio.
Nel 1936, dopo dieci anni di impegno a S. Salvatore, Madre Tarcisia veniva richiamata a Ronco di Ghiffa. Le monache più anziane, che hanno vissuto con lei gli inizi della nostra comunità, serbavano una bellissimo ricordo di lei: l’era buona - diceva Sr. Paolina – quando è arrivata l’obbedienza che doveva partire, ci dispiaceva a tutte e anche a lei rincresceva. Mi ricordo che ero andata a dirlo ad un sacerdote che ci conosceva e lui mi rispose: dica a Sr. Tarcisia che se l’opera (la comunità monastica e la sua presenza al monastero) deve crescere, bisogna metterci il fondamento col sacrificio.
E davvero seppe accettarlo bene il sacrificio. Si ha quasi l’impressione che la solidità di questa prima pietra si sia trasformata nella passibilità feconda di un chicco di grano che si disfa e sparisce perché il frutto possa moltiplicarsi e crescere. Agli inizi della fondazione nel 1927 Madre Caterina Lavizzari le aveva scritto: Vivete lo spirito della Regola e delle Costituzioni, sappiate aspettare e lasciar svolgere il grano di frumento sotto la terra – poi avrete spiga e ostie.
Madre Tarcisia seppe riconoscere in quella nuova chiamata, l’ora per lei di sparire e il tempo della attesa silenziosa per dar spazio all’opera di Dio. Stupisce constatare che i rivoli di inchiostro corsi sotto la sua penna nelle numerosissime lettere scritte da Piedimonte, sono cessati con quella partenza. Le persone e le situazioni conosciute in quei quattordici anni dovevano essere moltissime, eppure ha saputo lasciare tutto, in punta di piedi, ed è tornata a Ronco, nella semplicità della vita monastica dietro le quinte. La sua esistenza rimaneva però, nei disegni di Dio, segretamente legata al nostro monastero, come la radice nascosta continua ad alimentare lo stelo e la spiga.
Allo sguardo superficiale possono sembrare banali coincidenze, ma forse non lo sono. Mentre la comunità del SS. Salvatore nel 1954 lasciava Piedimonte per trasferirsi a Grandate, la salute mentale di Madre Tarcisia declinava rapidamente. Nel 1955 diede forti segni di squilibrio e dal luglio 1956 fu ricoverata presso la clinica psichiatrica Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio (MI), con diagnosi di demenza arteriosclerotica. Lì morì il 23 dicembre 1960. I suoi ultimi anni di sofferenza e di vita coincisero con i primi travagliati anni in cui la nostra comunità dovette trovare un nuovo assetto in territorio comasco. In modo misterioso, ma vero, ha così partecipato anche al trapianto e alla rifioritura di quel germoglio di vita monastica che al suo nascere aveva circondato di ogni cura.
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